In “Racconto d’inverno” Rohmer ci fa riflettere su quanto l’inatteso, ciò che è straordinario rispetto all’ordinarietà, ciò che si manifesta come un’epifania di nuovo senso può essere trovato (perseguito) a condizione di avere una determinazione che non è fedeltà alla stereotipia o al buon senso programmato, ma una fede imparentata con la verità più profonda delle emozioni.
Vi è dunque un collegamento fra fede e verità: la verità ultima della protagonista risiede nella sua vita emotiva e nel coraggio con cui lei, al di là del suo tornaconto (che pure cerca senza riuscire a sopportare), la persegue strenuamente, contro se stessa e contro la ragionevolezza che la vorrebbe sistemata e accasata con l’uno o con l’altro dei suoi spasimanti.
E’ quella di Felicie una fede nella passione che anima i suoi più intimi pensieri, una fede apparentemente folle, contro tutte le probabilità. E Rohmer la premia con la realizzazione del suo sogno sorretto dalla fede e dalla verità emotiva. Si tratta dunque, non soltanto di un film sulla straordinarietà della vita (ciò che potrebbe apparire ad una prima lettura di tono più favolistico), ma di un film sulla forza del sogno che infine si realizza proprio perché la protagonista si piega a ricevere ed accettare il destino di verità senza il quale la sua vita sarebbe insopportabile.
Nel mondo liquido e senza certezze della contemporaneità la nostra protagonista si staglia come una roccia contro i flutti della confusione narcisistica e della sciatteria dei sentimenti proponendo, come esito del suo percorso, una fortissima etica degli affetti.
E ciò che può avvenire nella stanza d’analisi quando la fede nelle passioni più intime e forti, quelle che offrono con pienezza un nuovo senso per la nostra vita, ci appare come l’unica scelta possibile: la verità su noi stessi e sul percorso più intimo e profondo al quale possiamo appellarci perché la nostra vita valga la pena di essere vissuta.