Da una delle ultime lezioni di Hans-Georg Gadamer
Mario Mattioda
Va detto innanzitutto che l’ermeneutica (o metodologia dell’interpretazione) si occupa esclusivamente di fenomeni interessanti, di fatti ed eventi portatori di senso. Premessa non scontata, poiché la disciplina invita a cogliere ciò che in un “testo” – in un paziente nel nostro caso – ha significato e a diffidare da atteggiamenti ottusamente onni-interpretativi. Inoltre, sebbene l’ermeneutica consideri infinita la produzione di interpretazioni, non per questo ritiene legittima ogni interpretazione: esistono anche letture errate, false, incompetenti, stupide, tutte estranee al campo ermeneutico. Per l’ermeneutica, l’interprete deve essere empaticamente, culturalmente e moralmente un “buon interprete”.
A ciò Gadamer aggiunge due insegnamenti di fondo:
non pretendere di approdare a verità definitive, fissate dogmaticamente;
non mirare alla costruzione di un nuovo sistema di conoscenze.
Per l’ermeneutica infatti, l’interpretazione è parte del soggetto interpretante e di conseguenza non può rivendicare un’esistenza propria, separata. Interpretare è cioè un atto “immanente e non oggettivante”: la sua natura soggettiva gli preclude il raggiungimento di un risultato reale, effettivo, come accade invece nelle scienze sperimentali, in cui si perviene alla formulazione di leggi oggettive.
L’atteggiamento ermeneutico non mira dunque a “spiegare” ma, lasciando parlare il testo, a “comprendere” ciò che si nasconde in ogni “struttura di senso”, cioè in ogni insieme significativo, sia esso un’immagine artistica, un evento storico o le parole di un paziente. L’ermeneutica eredita infatti dalla fenomenologia di Husserl l’attenzione per il dettaglio e la finezza descrittiva, unite al sospetto per le grandi costruzioni teoriche: il fine è restituire le cose alla loro concretezza, farle essere presenti.
Spiegare (da explicare = distendere una cosa piegata) e comprendere (da cum prehendere = prendere insieme, contenere in sé) sono i due verbi che nella riorganizzazione dei saperi operata dall’ermeneutica (la separazione tra scienze della natura e scienze dello spirito) definiscono rispettivamente l’approccio scientifico e quello umanistico alla conoscenza. Il comprendere, che concerne anche la clinica psicoanalitica, non è un comportamento teorico specialistico, ma il rapporto fondamentale che l’uomo intrattiene circolarmente con sé stesso e con l’altro. Circolarmente perché l’uomo è calato in un contesto storico e simbolico che lo precede: tale condizione implica una precomprensione preliminare ad ogni comprensione e rigetta le pretese di un pensiero senza presupposti, riabilitando per contro la tradizione e il pregiudizio. Spiegare e comprendere non si differenziano dunque come due metodi diversi per definire uno stesso oggetto, ma come due diverse direzioni della coscienza che giungono a costituire due differenti categorie di oggetti, quelli empirici e quelli storico-sociali.
Nelle scienze esatte, l’elemento soggettivo non conta, in quanto l’osservatore non modifica il fenomeno osservato: l’ermeneutica interviene allora dove tale riduzione del soggetto si rivela impossibile, dove la struttura in cui si articola la comprensione, trasmettendosi all’altro per trovare in lui il proprio compimento, non è riproducibile se non nell’atto stesso in cui si compie. Così avviene soprattutto nel dialogo clinico, dove centrali sono la relazione, il contesto emotivo, il tempismo del “qui ed ora”. Dove il valore dell’interpretazione terapeutica dipende dall’intuire cosa conviene dire e come dirlo, dal saper cogliere quel momento irripetibile in cui essa può trasmettersi al paziente in tutta la sua forza ed espressività. Il tempo ermeneutico non è infatti quello misurabile della fisica, ma il tempo vissuto, il tempo della comprensione della vita umana nel suo articolarsi nel mondo e nel dare ad esso valore.
Centrali per l’ermeneutica sono dunque la concretezza, il tempismo, la solidarietà, il rispetto, la comprensione dell’altro e di noi stessi, elementi che entrano potentemente in gioco quando ci troviamo implicati nella relazione clinica, impegnati nel dare senso e valore al dialogo terapeutico. Quando ad esempio deridiamo un paziente, dimenticando quanto la sua storia sia prossima alla nostra, disattendiamo i principi di base dell’ermeneutica: conoscenza di noi stessi, rispetto dell’altro, propensione all’ascolto, solidarietà, ricerca di un terreno comune, ecc.
Per l’ermeneutica lo sforzo di traduzione ed inclusione di linguaggi dissidenti, per approdare al di là delle differenze irriducibili ad un contesto comune, ad un sentire solidale e condiviso, si compie esclusivamente nel dialogo. Nella prospettiva ermeneutica, il linguaggio non è semplicemente uno strumento per comunicare, ma una struttura fondamentale che può essere sviluppata solo attraverso uno sforzo comune. In questo senso si coglie l’affermazione apparentemente paradossale di Heidegger secondo cui è il linguaggio che parla: essa significa che non sono io che parlo, né lo è il mio interlocutore, bensì il linguaggio che ci attraversa entrambi e che attraversandoci ci colloca all’interno di un mondo condiviso.
L’essere attraversati dal linguaggio significa dunque mettere a tema quegli elementi storici e linguistici che assicurano il nesso tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza. Qui si incontra la questione fondamentale della reciprocità: l’esperienza dell’uomo situato nel mondo non si esaurisce nello sforzo individuale di garantirsi la vita per mezzo del linguaggio. In gioco è la valenza del “simbolico”, il portato del linguaggio quale facoltà di dar vita alla reciproca comprensione. Ciò che conta non è uno specifico sistema linguistico, ma la possibilità di compiere azioni simboliche per dar vita alla reciproca comprensione nel dialogo con l’altro. Per l’ermeneutica infatti non basta muovere dall’individuo: di fronde al problema di saper esprimere il linguaggio che parla, il compito diviene quello porsi in ascolto del linguaggio stesso.
L’ermeneutica è dunque l’arte di ascoltare, attitudine orientata al superamento del narcisismo. Occorre saper ascoltare gli altri, essere disposti a prestare attenzione, astenendosi dal voler anticipare il pensiero altrui, credendo di averlo già inteso. E’ l’arte di lasciarsi rivolgere la parola, con ciò scoprendo di poter rispondere ad una precisa esigenza: quella del rispetto per l’altro. In questa deferenza c’è anche il controllo verso la propria smisurata e opprimente autostima, che fatica a considerare gli altri al pari di noi stessi. Ed è il rispetto a conferire al linguaggio a sua piena realtà: le cose che vengono dette non assurgono al rango di verità definitive, né l’interlocutore considera in questi termini ciò che gli viene comunicato; entrambi cercano invece di pensare ciò che non sa esprimersi, per incontrarsi ancora una volta là dove il linguaggio parla, dove si ha produzione di senso.
Così si crea la solidarietà, vincolo reale fondato sul capirsi. Qui agisce la linguisticità, cioè la facoltà di imparare a comprendersi vicendevolmente, base della solidarietà stessa: essa esprime il concetto secondo cui, pur nella divergenza, non si può mai abbandonare un terreno comune. In questo senso è il dialogo – luogo in cui prende forma il linguaggio – il linguaggio vero e proprio. Non la lingua delle grammatiche e dei dizionari, ma quella in cui si realizza una reale intesa reciproca, una reciproca comprensione che ha luogo nell’irripetibilità della situazione dialogica: ascolto ed interpretazione sono il presupposto affinché il linguaggio possa giungere all’espressione.
Dunque l’essenza del linguaggio non si gioca mai su elementi regolatori, ma sull’espressione di un’autentica comunanza. Nelle scienze “extra-metodiche” dello spirito – nelle scienze cioè non guidate da un metodo, la cui applicazione rende certo il risultato – le regole non bastano, non basta osservare la grammatica. Oltre a ciò, c’è la dimensione della formazione reciproca, la ricerca di un linguaggio comune nel dialogo. In esso c’è la possibilità cioè di esperire quanto ci accomuna e ci consente di capirci al di là delle differenze individuali, culturali, sociali, di contesto, ecc.
La fiducia verso una piena comprensione finale, quale esito di un rapporto autenticamente dialogico, è però una convinzione che, secondo Lacan, allontana in parte l’ermeneutica dalla psicoanalisi. La psicoanalisi non è infatti del tutto assimilabile all’ermeneutica perché la pulsionalità del paziente è eccentrica alla pura ricerca di un senso: se dunque l’esistenza singolare del soggetto analizzato non è pienamente rappresentata dal linguaggio, allo psicoanalista spetta un compito aggiuntivo, quello di un ascolto che accolga e valorizzi anche gli elementi contingenti che emergono nel corso della terapia. La teoria lacaniana su “l’etica della contingenza” (trattata da Recalcati nella sua monografia su Lacan) apre a nuove riflessioni e sarà oggetto di un successivo articolo.