DAL DISAGIO DELLA CIVILTÀ ALL’EPOCA DELLE PASSIONI TRISTI

Mario Mattioda

La pulsione sociale di morte

Si legge ne Il Disagio della civiltà: «Nella nevrosi individuale l’impressione di contrasto suscitata dal malato sullo sfondo del suo ambiente considerato normale ci offre un immediato punto di riferimento». Freud non intende dunque giudicare la società. Ma un approccio analogo è tuttora possibile? Possiamo oggi interpretare la malattia mentale come un fenomeno calato in un contesto socio-culturale neutro che ci esonera dal tener conto degli agenti patogeni presenti nella nostra civiltà? Viviamo un tempo governato dall’impazienza, dalla frenesia, dalla sordità, dall’attivismo competitivo, dal culto della prestazione, il tutto racchiuso in un orizzonte di minacce, consciamente o inconsciamente recepite, di pericolo, di precarietà, di disfacimento culturale, di assenza di valori, di sconvolgimenti ecologici: un’epoca violenta che condiziona profondamente la vita del singolo e impone ai terapeuti di gestire la crisi individuale all’interno della più ampia crisi sociale.

Tornando a Il Disagio della civiltà – scritto da Freud nell’estate del 1929 – ciò che di esso trova invece riscontro nel nostro presente è la teoria della pulsione di morte e sua estensione al sociale. E non tanto in virtù delle analogie tra la Grande Depressione e l’attuale crisi economica. È piuttosto l’analisi delle pulsioni distruttive, del loro manifestarsi sotto forma di “coazione a ripetere”, il contributo freudiano che più si adatta al mondo attuale. Un apporto inquietante – in apparente contrasto con gli igienismi e i salutismi tanto diffusi nella nostra cultura – ma basilare, perché in grado di spiegare quella spinta compulsiva al consumo, quell’amore per ciò che è privo di vita, che orienta la civiltà attuale verso la necrofilia.

Sugli effetti di tale pulsione – oggi riscontrabili tanto nei comportamenti individuali quanto negli scempi ambientali – hanno concentrato le loro riflessioni psicoanalisti quali Jacques Lacan e più recentemente Miguel Benasayag, René Kaës e Massimo Recalcati. Sfruttamento dell’uomo e della natura, consumo sfrenato, delirio narcisistico di onnipotenza sono temi frequentati dai quattro autori che, rileggendo l’economicismo imperante attraverso il filtro della pulsione di morte, indentificano nel consumismo e nell’etica utilitaristica i responsabili di una monocultura che spezza il legame sociale, abbassa il desiderio al rango di godimento, alimenta nuove forme di frustrazione provocate da comportamenti forzati  alla soddisfazione di bisogni perennemente inappagati.

 

La Mutazione antropologica

Se ci riallacciamo al concetto di “mutazione antropologica” – espressione  coniata da Pier Paolo Pasolini negli anni 1974-75 per descrivere “l’omologazione culturale”, l’immiserimento cioè dello spazio umano conseguente al consumismo di massa – possiamo rinvenirne una prima anticipazione psicoanalitica nel “discorso del capitalista”, una teoria esposta dallo psicoanalista parigino Jacques Lacan in una conferenza milanese del 1972 . Lacan annuncia una trasformazione epocale nel passaggio dal padrone al capitalista, cioè dall’ascetismo protestante del borghese di stampo weberiano, all’incitamento al consumo di beni proprio del tardo capitalismo. Mentre il discorso del padrone esprime una concezione gerarchica del potere, fissa il limite, spinge alla rinuncia e al sacrificio, il discorso del capitalista esalta l’offerta illimitata di merci da consumare e rivendica il diritto al loro godimento maniacale. L’imperativo capitalistico spinge a un consumo in assenza di desiderio, a un consumo di consumo, ad un edonismo solipsistico che provoca uno stato di impoverimento mentale ed alimenta una condizione di permanente frustrazione sociale. Il “discorso del capitalista” comporta inoltre un’alterazione nell’attività simbolica degli individui: risponde infatti ad una logica che rigetta il complesso di castrazione, abbatte la barriera dell’impossibilità, alimenta le patologie onnipotenti di natura narcisistica. L’importanza dell’interpretazione lacaniana della tarda modernità risiede pertanto nell’aver saputo prevedere e descrivere in termini psicoanalitici la comparsa di una nuova umanità mossa da un individualismo esasperato, anaffettivo, avulso da ogni limitazione morale.

I condizionamenti operati dal consumismo sono al centro delle analisi condotte dal sociologo Christopher Lasch a cavallo degli anni ’80. Lasch sembra cogliere una significativa contraddizione del nostro tempo, quella di una società che offre un’infinita gamma di possibilità e di stili di vita e al contempo obbliga l’individuo ad adeguarsi agli imperativi sistemici del mercato: ne risulta uno stato esistenziale spesso schiacciato tra un’onnipotenza illusoria e un’impotenza reale, una condizione in cui l’io del soggetto tende a rinchiudersi in un narcisismo difensivo, reattivo alla pressione sociale. Nel suo saggio intitolato L’io minimo si legge: «L’emergere del narcisismo significa una perdita di se stessi, molto più che una forma di auto-affermazione. Implica un’identità minacciata dallo spettro della disintegrazione e da un senso di vuoto interiore. Per evitare confusioni, quella che qui chiamiamo cultura del narcisismo potrebbe meglio essere definita, almeno al momento, come cultura della sopravvivenza. La vita quotidiana ha iniziato a conformarsi alle strategie di sopravvivenza tipicamente necessarie a chi vive situazioni estreme. Apatia selettiva, disimpegno emotivo dagli altri, rinuncia al passato quanto al futuro, determinazione a vivere un giorno per volta – queste tecniche di autogestione emotiva, forzatamente spinte agli estremi sotto la spinta di condizioni estreme, finiscono per plasmare anche la vita di persone ordinarie che vivono in situazioni apparentemente ordinarie, all’interno di una società burocratica che viene percepita, sempre più, come un capillare sistema di controllo totale». In condizioni sociali incerte in cui il futuro è percepito come una minaccia, la tendenza all’autoconservazione subentra dunque all’autodisciplina, l’immediata soddisfazione dei bisogni sostituisce la progettualità e l’impegno, la cultura del narcisismo diviene il sostrato necessario per massimizzare i vantaggi individuali nel brevissimo periodo.

Su questo scenario, di per sé già denso di implicazioni patologiche, si è abbattuta la crisi finanziaria del 2008 che, accrescendo l’emarginazione e la sperequazione sociale, ha creato una complicazione aggiuntiva, portatrice a sua volta di ulteriore frustrazione e senso di inadeguatezza: oggi all’incitamento al consumo di beni si contrappone la cancellazione delle precondizioni per il loro soddisfacimento , una contraddizione che l’imperante ideologia neoliberista risolve addossando al singolo la colpa di non sapersi adattare al nuovo ordine economico 3.

Di fronte ad una tale crisi epocale, quali strategie può mettere in campo la psicoanalisi? Da quali premesse etiche può affrontare un contesto culturale impoverito e un mondo fattosi insicuro? Come può accogliere il malessere 4  del singolo all’interno di una condizione sociale iniqua e precaria, che infonde sentimenti di frustrazione e di inadeguatezza e provoca umori depressivi o, reattivamente, comportamenti maniacali, ipernormali, anaffettivi? Su queste problematiche convergono le riflessioni di Benasayag, Kaës, Recalcati che pur con approcci teorici e clinici tra loro differenti, sono accomunati nella battaglia contro l’alienazione e la pulsione sociale di morte.

 

Benasayag, Kaës, Recalcati

Nel saggio L’epoca delle passioni tristi Miguel Benasayag si domanda se la naturale complessità del vivere non sia divenuta essa stessa patologica. Per l’autore la nostra condizione esistenziale non consiste più nell’evitare l’infelicità in assenza di felicità – come sosteneva Freud ne Il Disagio della civiltà – ma nel cercare di convivere con l’infelicità. Ne consegue che spesso le situazioni di sofferenza abbiano un carattere più reale che psicologico: sentimenti di precarietà, di destabilizzazione, di minaccia sono espressione della nuova forma di malessere provocata dalla crisi economica e sociale.

La crisi individuale si profila dunque come una crisi nella crisi, un’incapacità del singolo di stabilizzarsi in un contesto di emergenza permanente. L’angoscia che ne deriva spiazza a sua volta gli stessi terapeuti, chiamati a pronunciarsi su ambiti non sempre di loro pertinenza. E il rimedio a tali difficoltà è per lo più ricercato in pratiche terapeutiche di tipo tecnico: il paziente non è più colto «come un sistema complesso, ma come una macchina che produce sintomi da affrontare aprioristicamente, secondo una prescrizione che sostituisce la diagnosi». E la cura è affidata alla “terapia delle molecole”, ad un metodo classificatorio insufficiente cui Benasayag contrappone il dialogo come modalità terapeutica sostitutiva. L’approccio psicoanalitico si rivela pertanto antitetico al modello utilitaristico che pretendendo di possedere una soluzione terapeutica a priori e limitandosi a stabilizzare il paziente nella crisi, cancella il sintomo e con esso anche chi ne è il portatore. La “clinica del legame” di Benasayag, fondandosi sullo sviluppo di una nuova progettualità nata dall’incontro tra terapeuta e paziente, sposta invece l’attenzione dal sintomo alla molteplicità di fattori che lo hanno generato e concentra il proprio intervento sulla creazione di nuovi legami di senso.

Il sintomo per Benasayag non è dunque un fattore da eliminare per ripristinare l’originaria condizione di salute, ma un’opportunità di trasformazione. Se però assumiamo lo stallo e lo sradicamento sociale in cui viviamo come uno stato di fatto – negarne l’esistenza significherebbe peraltro mettere in dubbio la percezione della realtà di quanti chiedono aiuto – possiamo ancora pensare di riprogettare la vita dei pazienti nell’attuale dimensione  di estraneità e di infinito presente? L’uomo, come Heidegger insegna, è un “progetto gettato”, il suo esistere è cioè condizionato dall’appartenenza ad un contesto che lo precede: progettare significa allora unire passato e futuro, gettarsi oltre, prefigurare nuovi scenari, un’esperienza attualmente impedita da una condizione alienante in cui il nuovo è la ripetizione dell’identico. Oggi del resto, la radicata convinzione della “fine della storia” 5 ha come scopo quello di «consacrare religiosamente l’eterno presente capitalistico, privato di ogni storia e di trasformarlo in un destino ineluttabile che nessuna volontà umana potrà mai modificare» – come afferma Costanzo Preve nella sua storia della filosofia.

Per Benasayag l’utilitarismo è l’ideologia emergenziale che si è imposta per fronteggiare le difficoltà socio-economiche del presente: una cultura all’apparenza pragmatica, che non sostituisce la precedente ma si limita a puntellare illusoriamente il nostro tempo, facendoci vivere come se il mondo, nonostante la crisi, funzionasse ancora. Ma una civiltà composta da individui atomizzati che intrattengono relazioni prevalentemente contrattuali e competitive instaura un nuovo principio di realtà, costringendo i terapeuti ad una riflessione politico-filosofica sulla mutata situazione sociale. Una tale condizione esistenziale provoca infatti perdita di ideali, sentimenti di urgenza, passaggi all’atto: l’utilitarismo attiva cioè una serie di procedure reattive e di difesa che normalizzano l’emergenza azzerando il pensiero, bloccando l’elaborazione concettuale. Ed è proprio in questi processi che secondo Benasayag è massimamente evidente l’effetto della pulsione di morte. Negli individui si palesa un gusto per la distruzione, un godimento – al di là del principio di piacere – rivolto al peggio, un’imprecisata convinzione dell’inutilità della vita, un complesso di sensazioni e razionalizzazioni che in molte patologie tramuta, a livello inconscio, la minaccia della rovina in fascino e attrazione per la fine del mondo.

Assodato che in un contesto culturalmente alterato l’attenzione del clinico non possa più concentrarsi unicamente sul sintomo ma debba estendersi alla complessità soggettiva e sociale del paziente; che l’eccentricità di un individuo rispetto alla norma, l’unidimensionalità del suo disturbo mentale, non siano più elementi sufficienti a guidare la cura; che non basti normalizzare i soggetti  cancellando la loro libertà individuale in nome di un “dover essere maggioritario”, per Benasayag occorre costruire uno spazio simbolico alternativo che restituisca ai pazienti autenticità e capacità personali. La “clinica del legame” si incentra su un rinnovato approccio dialettico alla cura, per ridare valore terapeutico alla parola e consentire l’ideazione di un progetto esistenziale alternativo, costruito insieme al paziente e orientato alla produzione di un nuovo orizzonte di senso. La proposta di Benasayag si risolve in una pratica psicoanalitica al tempo stesso tradizionale e metodologicamente flessibile, non preconcetta, in radicale controtendenza rispetto all’inautenticità e all’apatia generalizzate di una civiltà in cui i presupposti del dialogo e dell’emancipazione sono venuti meno. Ponendo al centro la questione sociale, la “clinica del legame” si impegna a contrastare un’ipermodernità alienata, indifferente al superamento del proprio vuoto valoriale e del proprio impoverimento esistenziale.

Anche René Kaës focalizza il suo pensiero sulla crisi della nostra società, confrontandolo con le teorie avanzate da Freud nel Disagio della civiltà. In un’intervista rilasciata a Firenze 6 in occasione della pubblicazione del suo saggio Il malessere 7 l’autore si sofferma sugli effetti provocati dal crollo dei riferimenti culturali tradizionali, un fenomeno che mina la capacità degli individui di riconoscersi membri di una comunità. Gli uomini per Kaës non sono più «eredi, servitori e beneficiari della società» – come affermato ne Il Disagio della civiltà: oggi il processo di simbolizzazione prodotto dal “legame delle alleanze inconsce” è a rischio, è cioè minacciata la capacità di creare senso a partire da quelle «formazioni che derivano dalla strumentazione psichica dei soggetti di un insieme trans-soggettivo (coppia, gruppo, famiglia, istituzione)». Per contro «la vita psichica è fatta di connessioni tra soggetti […] e la soggettivazione è uno spazio di simbolizzazione, è l’accesso che il soggetto può avere alla propria storia e ai legami che l’hanno costituita». La teoria kaësiana secondo cui il soggetto per accedere al processo di simbolizzazione deve sentirsi parte di un sistema di relazioni non è priva di ricadute epistemologiche: sospinge infatti l’interpretazione freudiana della realtà psichica oltre lo spazio autopoietico e costringe la psicoanalisi a incorporare l’intersoggettività – quale categoria sociologica – nel proprio ambito disciplinare.

Allontanandosi dunque dall’impostazione freudiana che valutava l’importanza delle dinamiche sociali limitatamente alla loro capacità di condizionare pulsioni già esistenti nell’uomo, la psicoanalisi di Kaës intende individuare i malesseri tipici della nostra modernità mettendo in risalto la crisi di quei fattori ambientali in cui le alleanze inconsce trovano espressione. E sebbene Kaës cerchi di non invalidare il pensiero di Freud 8  mantenendosi con controllata coerenza su un sottilissimo crinale concettuale, la sua teoria sembra accogliere, rielaborandola, la categoria di “inconscio sociale” 9 e avvicinarsi a quella visione olistica che assegna alla civiltà un ruolo di fondamentale importanza per lo sviluppo umano. L’inconscio sociale è infatti tale in quanto risponde a fattori relazionali e culturali di cui gli individui sono inconsapevoli, ma da cui risultano profondamente condizionati.

Se nel processo di soggettivazione è imprescindibile la costruzione di un asse identitario fatto di relazioni interpersonali, ne consegue l’impossibilità per un individuo di divenire soggetto in assenza di legami sociali. Nel mondo contemporaneo il dilagare dell’individualismo è, secondo Kaës, il principale responsabile del deterioramento dei “garanti metapsichici e metasociali”: costituiti i primi dagli interdetti fondamentali e dai contratti intersoggettivi, i secondi da riti, miti, ideologie, credenze, i garanti sono i costruttori delle forme inconsce su cui si fonda l’identità personale. La loro alterazione provoca incertezza nei riferimenti di appartenenza, nei sistemi interpretativi, nell’affidabilità delle istituzioni. E il malessere psichico che ne deriva si esprime in atteggiamenti narcisistici e competitivi, sentimenti di inconsistenza, di incertezza identitaria, di rifiuto dell’autorità e del limite, oltre a provocare la disgregazione dei legami transgenerazionali, delle strutture familiari, della socialità e del potere.

Kaës descrive una condizione esistenziale recentemente definita “post-sociale” dal sociologo francese Alain Touraine, per il quale il definitivo passaggio al capitalismo finanziario ha reso inservibili tutte le costruzioni sociali del passato: famiglia, classe, democrazia, Stato. Col tramonto del capitalismo industriale, la mutazione antropologica avviata dal consumismo sarebbe dunque giunta a compimento, provocando un smantellamento dei precedenti legami interpersonali non accompagnato dalla creazione di nuove istituzioni e nuove istanze di emancipazione: ai valori e ai riferimenti tradizionali sarebbe invece subentrata soltanto una pseudo-cultura populista e omologante che esercita il proprio potere non più per imposizione ma per fascinazione, emanando cioè una forza seduttiva e manipolativa che penetra nelle persone, nelle loro coscienze, nel loro comportamento.

La società contemporanea è secondo Kaës sempre più popolata da individui e non da soggetti, in quanto la crisi dei legami tra gli uomini arresta i processi di soggettivazione. E a pagarne il prezzo sono i rapporti interpersonali stessi che tendono ad una progressiva frammentazione e dispersione, generando forme di sofferenza psichica inedite. Per Kaës come per Benasayag la psicoanalisi è di conseguenza obbligata a confrontarsi con i disagi della nostra civiltà, per poter concepire teorie e pratiche adeguate alle nuove patologie depressive e maniacali. Oggi la psicoanalisi deve saper affrontare i traumi collettivi, il diffondersi cioè di forme di violenza che escludono il riconoscimento e l’identificazione  con l’altro, in quando è proprio la rottura di legami sociali capaci di generare senso – legami da cui il soggetto può allontanarsi, ma mai spezzare – la principale causa del malessere psichico attuale.

Massimo Recalcati avvia invece le sue riflessioni sulla civiltà attuale a partire dal “discorso del capitalista” di Lacan: il capitalismo assoluto che caratterizza la nostra contemporaneità e che ha portato al parossismo la mutazione antropologica già denunciata da Pasolini è interpretato come una forma di esasperazione interna alla modernità stessa. Per Recalcati non c’è dunque frattura col passato, viviamo in una dimensione “ipermoderna”: nondimeno ci discostiamo dal precedente postmoderno, non siamo cioè più in una fase storica di trapasso, di rifiuto delle teorie, di disincanto e di incredulità nei confronti delle grandi narrazioni, ma in un’età di compiuta alienazione, di assenza di ogni principio di autorità, di negazione di ogni fondamento comunitario. L’ipermoderno segna pertanto «il passaggio dal postmoderno inteso come epoca dell’alleggerimento dal peso delle ideologie ad un’epoca spaesata, caotica destabilizzata, a una vita tesa tra identificazioni calcificate e dissipazione in legami liquidi». A ciò va aggiunto che la stessa convinzione postmoderna di vivere un tempo contrassegnato dalla morte delle ideologie si rivela oggi superata: se per ideologia intendiamo la capacità di orientarsi secondo un sistema di idee interconnesse da una dominante, l’attuale realismo neoliberista si configura anch’esso come un’ideologia i cui valori (pensiero pragmatico, principio di prestazione, spinta al godimento, ecc.) sono riconducibili ai suoi presupposti individualistici e i cui effetti patogeni derivano dal rigetto del limite, dal rifiuto della dimensione finita dell’umano.

Ritornando alle riflessioni di Recalcati e seguendole nel loro svolgimento notiamo come per l’autore la condizione ipermoderna azzeri il desiderio del soggetto, provocando nuove sofferenze che spezzano ogni legame con l’inconscio. Un annullamento nichilistico del desiderio che a sua volta determina due tipi di disturbi psichici: quelli narcisistici, che danno luogo a identificazioni forti e irrigidiscono sterilmente l’io, e quelli che assumono invece l’incitamento capitalistico al godimento come comandamento assoluto e mortifero, esente da ogni mediazione simbolica. A contrassegnare socialmente tali patologie è ”l’evaporazione del padre”, un concetto lacaniano anch’esso fatto proprio da Recalcati, che esprime lo sfaldamento della società, lo scardinamento delle leggi familiari, la sparizione di una figura paterna capace di guidare i figli nell’assunzione delle loro responsabilità.

Scrive Recalcati in un suo articolo apparso on-line: «Lo spaesamento come la fuga nella normalità denotano la figura di un nuovo soggetto drasticamente separato dal proprio inconscio. La liquidità baumaniana è solo un effetto della dissoluzione della funzione orientativa  dell’Ideale edipico. L’altro aspetto riguarda le identità solide. Allora con il doppio riferimento allo strapotere dell’Es e alle identificazioni solite ci si riferisce all’oscillazione tra la ripetizione pulsionale e all’emergere di identificazioni pietrificate, tra devastazione caotica e consistenze illusorie, a due tipi di clinica, quella compulsiva dell’es senza inconscio e quella dell’immedesimazione alienante dell’io senza inconscio. La matrice delle nuove forme del sintomo vanno allora rinvenute nella psicosi, nel narcisismo, nella perversione, in cui al centro non c’è l’istanza inconscia del desiderio, ma la sua negazione nella forma di un prevalere dell’agire pulsionale privo di articolazione simbolica».

Se alla base del “discorso del capitalista” troviamo la pulsione di morte quale dimensione acefala e priva di argini simbolici, il compito etico della psicoanalisi consiste per Recalcati nell’opporsi a tale pulsione, non normalizzandola, ma operando per ricongiungere il soggetto al suo desiderio inconscio. La psicoanalisi di Recalcati sembra dunque ritrovare la sua funzione etica e terapeutica: quella di far assumere al paziente la responsabilità del proprio desiderio, confrontandolo con la sua verità, con un’istanza che lo trascende, ma che non può non corrispondere.  Ma si può ancora ricucire il legame spezzato tra il paziente e i suoi simboli? È possibile cioè restituirgli la dimensione inconscia perduta? Ed è lecito, in un’epoca senza maestri, ipotizzare il ritorno di un’autorità paterna capace di ripristinare la legge e riaccendere il desiderio? Il pensiero di Recalcati sembra attraversato da una vena nostalgica riguardo alle sorti future dell’uomo: un rimpianto lontano dalle posizioni di Benasayag e Kaës che, abbandonando ogni tipo di attesa e di previsione sull’avvenire, si limitano a mettere in gioco coraggio, capacità di resistenza e risorse libidiche per contrastare un destino umano privo di senso e di prospettive.

 

La condanna della civiltà neoliberista

La condanna morale del neoliberismo, giudicato come un’ideologia patogena necro-economicista costituisce dunque un terreno comune nelle analisi di Benasayag, Kaës e Recalcati. Altrettanto convergenti sono le loro valutazioni sui danni inflitti alla psiche da tale ideologia: rifiuto dell’autorità, arresto del processo di soggettivazione, azzeramento delle capacità simboliche, fissazione narcisistica sono per i tre autori i principali effetti di una pressione sociale che azzera l’attività inconscia degli individui. Ma, come già accennato, individuare nel condizionamento socio-culturale la causa della sparizione dell’inconscio porta ad una modificazione nello statuto epistemologico della psicoanalisi stessa. Nell’impianto freudiano la sociologia, letteralmente intesa, è assente, essendo l’inconscio a costituirne la specificità 10. L’introduzione nella psicoanalisi di categorie sociologiche ha allora un effetto trasformativo che modifica il pensiero di Freud nel suo nucleo più irriducibile. La crisi della nostra società, oltre a provocare la crisi del soggetto, sembra dunque intaccare anche il sistema freudiano, oggi corretto nel suo fondamento.

Ma gli effetti prodotti dalla crisi sociale sulla psicoanalisi investono anche una questione più direttamente clinica, evidenziata da Althusser: quella della “parola piena”, la parola cioè legata al transfert e alla verità del paziente. Per Freud la parola è il fulcro della cura, tutto avviene in essa e con essa. Nel dialogo analitico rinveniamo infatti sia l’oggetto, sia il mezzo di una pratica terapeutica che attraverso il linguaggio accede al discorso dell’inconscio del paziente: un discorso duplice e unitario – che esprime un pensiero e al contempo dice altro, come Freud mette in evidenza nel sogno, nel lapsus, nel sintomo, nel motto di spirito – e inoltre paradossale, in quanto il paziente non è padrone di ciò che afferma, dovendo attendere la risposta dell’analista per riconoscere come vera la propria parola. Nel corso del trattamento, la ricerca sul senso si svolge pertanto all’interno di una dialettica duale, che trova soluzione soltanto nel riconoscimento di una parola capace di oltrepassare la logica singolare del monologo narcisistico.

La cura analitica impegna dunque il paziente sulla verità del suo inconscio, costringendolo ad una riflessione che richiede tempo, rispetto dei ruoli, capacità relazionali. Ma nell’età della fretta, della sordità, del disimpegno, del godimento immediato, dell’assenza di legami è ancora possibile ottenere la sua collaborazione? Come avviare oggi un percorso a due che, unendo memoria, attesa e dedizione, assuma progressivamente un significato più profondo? Come preservare il valore etico della parola e dell’ascolto? Queste domande invitano ad un ripensamento di fondo sulla teoria e sulla pratica psicoanalitica. Certo è che nel dilagante vuoto di autorità proprio della nostra contemporaneità – l’attuale società capitalistica non si regge infatti su un Super-io sociale intriso di valori trascendenti, si autofonda sull’immanenza del proprio ciclo di produzione, consumo, riproduzione e percepisce ogni istanza etica come un freno alle proprie potenzialità, un limite da sfidare e oltrepassare ad ogni costo – in un presente indecidibile e apparentemente intrascendibile, le psicoanalisi di Benasayag, Kaës e Recalcati proprio col loro opporsi alla civiltà della “parola vuota”, dell’evaporazione del padre, delle opinioni soverchianti, della comunicazione unidirezionale, del sapere ridotto a certezza, a dato, a informazione, esprimono una posizione integrata di denuncia e resistenza sociale, una critica a difesa di una vita autenticamente vissuta, oggi sempre più insidiata.

 

Note

1 Du discours psychanalityque: conferenza tenuta a Milano da Jacques Lacan il 12 maggio 1972.

2 Vedi il saggio di Marco Solinas Sui paradossi della critica esterna. Marcuse, i bisogni indotti e i desideri di massa, al sito: http://www.consecutio.org/wp-content/uploads/2014/05/DEFINITIVO-PARADOSSI-MARCUSE-SOLINAS.pdf

3 Emblematica al riguardo è la tesi contenuta nel saggio del politologo neozelandese Kenneth Minogue La mente servile, secondo cui la richiesta di aiuto rivolta dai cittadini allo Stato sociale porterebbe alla spogliazione delle responsabilità personali, istituirebbe cioè un baratto scellerato in cui si perdono libertà individuale e capacità di giudizio morale in cambio di più diritti per tutti.

4 Scrive lo psicoanalista francese René Kaës ne Il malessere: «Per uscire dal malessere multidimensionale, cosa ci apporta la psicoanalisi, cosa può e con quali limiti? Il suo contributo è senza dubbio considerevole: essa partecipa all’intelligibilità di ciò che viviamo, subiamo, soffriamo, distruggiamo, pensiamo e creiamo […] La psicoanalisi quando sa darsi le condizioni per un ascolto nei dispositivi adeguati, può cogliere gli effetti di queste profonde ferite della vita psichica, conoscerne le molle, lenire e forse ripararne qualcuna; può farle conoscere e riconoscere dai soggetti stessi e, più in generale, da tutti. È ciò di cui può o deve pubblicamente testimoniare, come ha fatto per criticare i legami tra la nevrosi, la morale sessuale e civile e il disagio della civiltà».

5 La fine della storia è il titolo di un saggio scritto nel 1992 dal politologo statunitense Francis Fukuyama in cui si afferma che la diffusione a livello globale della democrazie liberali, del capitalismo e dello stile di vita occidentale, porta alla fine dello sviluppo socio-culturale dell’umanità, all’affermazione di una forma finale di governo nel mondo.

6 Vedi Psicoanalisi e malessere contemporaneo. René Kaës. Intervista-video rilasciata da René Kaës a A. Ferruta al sito:  http://www.youtube.com/watch?v=uiJEJ9_iiMk

7  Nel saggio il termine “disagio” è sostituito con “malessere”, più consono secondo René Kaës  a descrivere le attuali psicopatologie collocate all’incrocio di inconscio e cultura.

8 Scrive René Kaës ne Il malessere: «Il mio intento non è proporre una psicopatologia sociale del mal-essere; piuttosto, cercando di seguire il disegno di Freud, è quello di identificare problematiche sufficientemente costanti in questi legami così complessi della vita psichica inconscia, della socialità, della cultura».

9 Il concetto di “inconscio sociale”, già impiegato dallo psichiatra statunitense Trigant Burrow in un’ottica relazionale, è ripreso dallo psicoanalista tedesco Erich Fromm, per respingere la teoria libidica di stampo meccanicistico di Freud. Scrive Fromm: «In primo luogo va menzionato il concetto di “filtro sociale” che decide a quali esperienze sia consentito affiorare alla coscienza […]. Questo “filtro” è di natura sociale ed è formato dal linguaggio, dalla logica e dalle usanze (idee e pulsioni tabuizzate o consentite). Esso varia a seconda delle culture, e determina l’“inconscio sociale”. All’inconscio sociale viene impedito con tanta risolutezza di essere reso conscio in quanto la rimozione di determinate pulsioni e idee svolge un compito molto reale e importante per il funzionamento della società, cosicché tutto l’apparato culturale serve a mantenere intatto l’inconscio sociale. Al confronto la rimozione individuale, che si rivela necessaria sulla base di particolari esperienze del singolo, appare insignificante. Inoltre i fattori individuali sono tanto più efficaci quanto più vanno nella stessa direzione dei fattori sociali». (E. Fromm, L’inconscio sociale. Alienazione, idolatria, sadismo).

10 Questo ci ricorda il filosofo francese Louis Althusser. Diversamente dalle scienze sociali che indicano in un contenuto esterno (la società, la famiglia, ecc.) il fattore che imponendosi sull’individuo ne avvia il percorso di soggettivazione, per la psicoanalisi tale processo non origina da condizionamenti sociali e culturali: inizia piuttosto nello spazio «che separa la vita dall’umano, il biologico dallo storico, la natura dalla cultura» e che trova nell’inconscio individuale il suo vero motore.

 

Bibliografia essenziale

  1. Althusser, Freud e Lacan. Editori Riuniti, Roma 1977
  2. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi. Feltrinelli, Milano 2013
  3. Borelli, M. De Carolis, F. Napolitano, M. Recalcati, Nuovi disagi nella civiltà. Einaudi, Torino 2013
  4. Contri, (a cura di), Lacan in Italia 1953-1978. La Salamandra, Milano 1978
  5. Freud, Al di là del principio di piacere in Sigmund Freud opere 1917-1923. Boringhieri, Torino 1989
  6. Freud, Il disagio della civiltà in Sigmund Freud opere 1924-1929. Boringhieri, Torino 1989
  7. Fromm, L’inconscio sociale. Alienazione, idolatria, sadismo. Mondadori, Milano 1992
  8. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. Rizzoli, Milano 1992
  9. Heidegger, Essere e tempo. Mondadori, Milano 2011
  10. Lasch, L’io minimo. Feltrinelli, Milano 1985
  11. Kaës, Il malessere. Borla, Roma 2013
  12. Minogue, La mente servile. Ibl Libri, Milano 2013
  13. P.P. Pasolini, Lettere luterane. Einaudi, Torino 1976
  14. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Petite Plaisance, Pistoia 2013
  15. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione. Raffaello Cortina, Milano 2012
  16. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina, Milano 2010
  17. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Il Saggiatore, Milano 2008